Il legislatore, con la legge n. 242/2016 ha fornito dei primi spiragli ed aperture all’utilizzo della canapa light, c.d. anche Cannabis sativa, in alcuni settori del commercio.
In particolare, la legge stabilisce all’art. 1 la finalizzazione volta all’utilizzo della canapa per la coltivazione e alla trasformazione, per l’incentivazione dell’impiego e del consumo finale di semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali, per lo sviluppo di filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati della ricerca e perseguano l’integrazione locale e la reale sostenibilità economica e ambientale, per la produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori, per la realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, attività didattiche e di ricerca.
L’art. 2 della predetta legge consente la liceità della coltivazione nel settore alimentare e cosmetico per prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori, nei semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico, nel materiale destinato alla pratica del sovescio, nel materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia, nel materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati, nelle coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati e nelle coltivazioni destinate al florovivaismo.
Gli obblighi riguardante il coltivatore riguardano il principio di THC che deve essere contenuto all’interno della sostanza che non può superare lo o,6% e che, quindi, può aggirarsi tra lo 0,2 e lo 0,6%.
Tutto molto chiaro.
E chi vuole commercializzare la canapa light per fini (chiamiamoli di svago) comunque diversi a quelli previsti dalla legge 242/2016?
Inizialmente, questo provvedimento legislativo è stato applicato in forma estensiva e in totale apertura alla commercializzazione ed al consumo della c.d. cannabis leggera in quanto, non superando il thc di 0,5% (per il quale giurisprudenza pacifica ritiene che sia non consentito), non viene considerato reato.
Ed infatti, anche le prime pronunce giurisprudenziali hanno stabilito che, seppur non sia espressamente previsto dalla legge 242/2016, la commercializzazione della canapa sativa non può essere considerato reato (e quindi rientrerebbe anche nelle fattispecie non contemplate espressamente dalla predetta legge), in quanto il venditore venderebbe qualcosa priva di alcuna fattispecie drogante.
La Cassazione a Sezioni Unite, interrogata per applicare un principio di diritto univoco, nel 2019 è intervenuta per dirimere i contrasti giurisprudenziali che nel corso di soli 4 anni, dall’entrata in vigore del provvedimento, si erano susseguiti.
La stessa ha attualmente stabilito che “La commercializzazione di cannabis sativa e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53 Ce del Consiglio, del 13 giugno 2002, e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati” (Cassaz. Pen., SS. UU., sent. n. 30575 del 2019).
Pertanto, il commercio di sostanza stupefacente, seppur con un thc compreso tra 0,2 e 0,6%, è da considerare reato ai sensi dell’art. 73 del D.P.R. 309/90 (Testo unico sugli stupefacenti).
Il principio stabilito dalle Sezioni Unite è molto chiaro: il commercio della canapa light non è ricompreso nelle attività stabilite dalla legge 242/2016 e, non potendo applicare nel diritto penale le interpretazioni analogiche ed estensive, è da considerare reato.
Ciò, però, ha portato ad un altro problema non chiarito al momento delle Sezioni Unite.
Il possesso, detenzione, commercio, ecc. di marijuana che abbia un contenuto di thc inferiore a 0,5%, ai sensi dell’art. 73 D.P.R. 309/90, non è da considerare drogante, e quindi non può essere condannato uno spacciatore professionista che venga trovato in queste particolari condizioni.
Il rivenditore autorizzato, iscritto alla Camera di Commercio, che paga le tasse per la propria attività, al momento sembra profondamente penalizzato in ordine all’applicazione della sentenza delle Sezioni Unite in quanto non può vendere la sostanza considerata, per giurisprudenza pacifica, non drogante.
Tale principio provoca attualmente una totale disuguaglianza tra chi vende legalmente da chi no.
In attesa di un intervento legislativo, i tribunali si troveranno ad applicare un principio non del tutto chiaro.
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